Trentunesima domenica del Tempo Ordinario Anno A

Posté par diaconos le 6 novembre 2023

Parabola delle dieci vergini

 Parabola delle vergini stolte e sagge

I Farisei erano un gruppo religioso e politico di ferventi ebrei che, insieme ai Sadducei e agli Esseni, emerse in Palestina durante il periodo asmoneo, intorno alla metà del II secolo a.C., in risposta all’ellenizzazione voluta dalle autorità del tempo. Autore della Torah orale, che anticipa il rabbinismo, questo movimento faceva parte del giudaismo del Secondo Tempio, di cui influenzò lo sviluppo.

Estintosi verso la fine del I secolo, ci è noto attraverso varie fonti i cui rinnovati studi, a partire dalla fine del XX secolo, hanno evidenziato la difficoltà di comprenderne la complessità. Il loro movimento è chiamato farisaismo o fariseismo. Dall’applicazione rigorosa dei criteri di storicità alle fonti e dall’atteggiamento più scettico degli esegeti nei loro confronti, le informazioni considerate attendibili sul movimento farisaico si sono notevolmente ridotte.

Paradossalmente, questo progresso esegetico ha reso i contorni del movimento meno chiari e meno certi. È ora necessario esaminare ciascuna di queste fonti separatamente, tenendo conto del periodo e del contesto in cui sono state scritte. Discorso contro gli scribi e i farisei Ai farisei era stata conferita l’autorità di successori di Mosè. Era quindi convenuto obbedire ai loro precetti, ma bisognava stare attenti a non seguire il loro esempio, perché non mettevano in pratica ciò che insegnavano, ma si limitavano a gravare sugli altri. Qualsiasi cosa facessero, la facevano per essere notati e lodati dagli altri.

Alla stolta vanità dei farisei, Gesù contrapponeva l’atteggiamento umile che prescriveva ai suoi discepoli: non si facciano chiamare Rabbì, Padre, Direttore, perché sono tutti uguali davanti a Dio; il più grande tra loro sia il servo di tutti ; chi si umilia sarà esaltato. Gesù ha messo a tacere i suoi avversari. Formulò la loro condanna: questo discorso fu rivolto prima alle folle e ai discepoli, che Gesù voleva proteggere dallo spirito dei capi del popolo; poi li prese di mira, esponendo e censurando i loro vizi in una serie di apostrofi taglienti.

Questo discorso fu pronunciato solo da Matteo; Marco e Luca ne riportarono solo alcuni frammenti, che collocarono in altre occasioni come la critica moderna attribuisce a Matteo. « È del tutto appropriato che a questo punto Gesù esprima tutto il suo pensiero sui suoi avversari ». (De Wette)

« Questo discorso è così pieno di vita e di unità che non c’è dubbio che sia stato pronunciato in questo modo, anche se forse contiene alcuni elementi presi in prestito da altri discorsi di Gesù ». (Meyer) La cattedra di Mosè si riferisce all’attività e all’autorità che Mosè esercitava come legislatore e guida del popolo. Essi sedevano su questa cattedra come successori del grande servo di Dio. I rabbini usavano la stessa espressione per dire che un maestro succedeva a un altro nell’insegnamento.

Poiché gli uomini di questo partito avevano mostrato fino ad allora una crescente ostilità nei confronti di Gesù, poiché avevano resistito ai suoi avvertimenti e avevano progettato di impadronirsi di lui, egli rinunciò a ogni considerazione nei loro confronti e ruppe con loro. Gli scribi, simili in tutto e per tutto ai farisei, avevano preso la stessa posizione. Erano i sopherim dell’Antico Testamento, gli uomini dei libri. Nei Vangeli sono chiamati scribi, o legalisti, o maestri della legge, perché l’oggetto principale dei loro studi era la legge di Mosè in sé e nelle sue varie applicazioni alla vita del popolo.

Poiché questa legge era sia religiosa che civile, gli scribi erano allo stesso tempo teologi e giureconsulti. Spesso venivano nominati con i farisei, perché la maggior parte di loro apparteneva a quella setta, o con i capi sacerdoti, di cui erano consiglieri nell’applicazione della legge e nei casi di coscienza. Gli scribi ebbero sempre un ruolo molto attivo nell’opporsi a Gesù. Lo spiavano, criticavano la sua condotta e cercavano di sorprenderlo con domande insidiose. La maggior parte degli interpreti pone diverse restrizioni a questa raccomandazione di Gesù, dato che gli scribi e i farisei potevano insegnare cose false che, in questo caso, i discepoli non dovevano né osservare né fare.

Gesù supponeva che essi insegnassero la Legge di Mosè sul pulpito dove sedevano. Legare pesi è un’espressione figurata che significa: raccogliere in un unico corpo tutti i comandamenti della legge, con le innumerevoli e minuziose prescrizioni cerimoniali che i farisei vi avevano aggiunto, per esigerne l’osservanza. Questi fardelli, pesanti e difficili da portare, dove né la grazia né l’amore aiutavano a portarli, i farisei li imponevano agli altri; ma, lungi dal prenderli su di sé, non li suscitavano nemmeno con il dito  : « E tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini; infatti allargano i loro filatteri e allungano le frange delle loro vesti ». (Mt 23,5)

Gesù ha citato questi dettagli come esempi del loro vano e ipocrita desiderio di essere visti dalla gente. I filatteri, ancora usati dagli ebrei, sono strisce di pergamena su cui sono scritte parole delle Scritture. Durante la preghiera venivano attaccati al braccio sinistro o alla fronte. Per questo gli ebrei chiamavano queste pergamene tephillim, preghiere. A questi oggetti si attribuiva anche l’idea superstiziosa di amuleto o talismano.

« Le hanno fatte più larghe per essere ancora più sicuri di essere visti dalla gente » dice Gesù,. Le frange, una specie di nappina che i Giudei portavano sul bordo dei loro mantelli, vi attribuivano un’idea religiosa. Rabbi significa maestro o dottore. Il titolo di padre, inteso in senso morale spirituale, è più alto di quello di maestro e indica una maggiore dipendenza dalla persona a cui è attribuito. Se Dio solo è il Padre di coloro che genera con il suo Spirito per una nuova vita, Cristo solo è il direttore di coloro che conduce con la sua parola e con il suo esempio nelle vie di questa nuova vita.

Tutti questi titoli: maestro, padre, direttore, se applicati alle persone, non fanno altro che privare Dio e il suo Cristo della gloria che spetta loro. È così che nascono i partiti e le sette. Questi segni di adulazione umana hanno trovato la loro strada nella Chiesa cristiana proprio come un tempo tra gli ebrei. Dall’umiltà alla grandezza, dall’umiliazione alla gloria: questo è il cammino verso il regno di Dio, il cammino che Gesù ha seguito, l’unico possibile per i suoi discepoli.

Rivolgendosi direttamente agli scribi e ai farisei e gridando loro per sette volte : « Guai a voi !«  Gesù censurava tutta l’ipocrisia del loro comportamento : l’ipocrisia della loro posizione di guida del popolo: essi stessi non entravano nel regno dei cieli e lo chiudevano agli altri. L’ipocrisia del loro comportamento faceva sì che le anime si perdessero più sicuramente. L’ipocrisia della casistica che applicavano ai giuramenti. L’ipocrisia del loro formalismo, che osservava le minuzie della legge e trascurava i doveri più importanti.

L’ipocrisia di pulire l’esterno e lasciare sporco l’interno. Tutta questa ipocrisia li rendeva come sepolcri imbiancati. Li ha portati a costruire i sepolcri dei profeti. Con accenti dolorosi, Gesù esprime la profonda pietà che prova per questa Gerusalemme che ha ucciso i profeti.Ricordò gli inutili sforzi che aveva fatto per attirarla a sé ; le annunciò la sua rovina e le disse che non lo avrebbe rivisto fino al giorno in cui avrebbe accolto il suo ritorno nella gloria.

Il diacono Michel Houyoux

Padre Fernando Armellini : clicca qui per vedere il video → https://youtu.be/9c6B_-Ug81Y

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Trente deuxième dimanche du temps ordinaire dans l’année A

Posté par diaconos le 5 novembre 2023

la Bible, études bibliques,

 Parabole des vierges folles et des vierges sages

# Les dix vierges, ou les Vierges folles et Vierges sages, est une parabole de l’Évangile selon Matthieu. Elle appartient au Sondergut de cet évangile. Elle met en image l’appel de Jésus-Christ à suivre les principes de la fidélité à sa parole, à la miséricorde et la charité pour gagner, après la mort, le Royaume de Dieu plutôt que la perdition en enfer.L’huile est en fait la miséricorde (en grec le mot « huile » et le mot « miséricorde » sont homophones.) Les vierges sont appelées « folles », car elles ont vaincu un ennemi puissant qui est l’amour charnel mais n’ont pas réussi à vaincre un ennemi plus faible qui est le manque de miséricorde, explique, dans sa 12° homélie, Jean Chrysostome.

Les vases sont nos cœurs, et l’huile est l’éclat intérieur de la gloire, entendez les vertus, d’après Grégoire le Grand,. Pour Grégoire le Grand, elles sont le symbole de l’Église vivante qui regroupe les sages comme ceux qui le sont moins.Dans son homélie 78, Jean Chrysostome rapproche ce passage biblique à la Parabole des talents ; il faut porter du fruit… et mon Père (le vigneron) sera glorifié : pour reprendre l’évangile selon Jean, chapitre 15.Plusieurs cathédrales gothiques comprennent des représentations de la parabole sous forme de sculptures.

# Jésus-Christ, le Christ est le nom donné par l’ensemble des chrétiens à Jésus de Nazareth, qu’ils considèrent comme le Messie annoncé par l’Ancien Testament du judaïsme, mort et ressuscité pour le salut des hommes.

La plupart des chrétiens reconnaissent Jésus-Christ comme le Fils unique de Dieu et comme l’une des trois personnes du Dieu trinitaire.Sa mère est Marie de Nazareth. Ce n’est qu’à partir des recherches critiques du XIXe siècle que les historiens ont peu à peu dissocié Jésus-Christ, la figure religieuse, et Jésus de Nazareth, le personnage historique.Les musulmans reconnaissent Jésus de Nazareth en tant qu’un éminent prophète de Dieu sous le nom ʿĪsā. Les plus anciens textes chrétiens sont les lettres de Paul de Tarse, dont sept sur les quatorze que contient le Nouveau Testament sont considérées aujourd’hui comme authentiques et écrites entre 50 et 55.L’essentiel de la profession de foi de Paul (on parle aussi de kérygme) est exprimée dans la Première épître aux Corinthiens.

De l’Évangile de Jésus Christ selon saint Matthieu

En ce temps-là, Jésus disait à ses disciples cette parabole : «Le royaume des Cieux sera comparable à dix jeunes filles invitées à des noces, qui prirent leur lampe pour sortir à la rencontre de l’époux. Cinq d’entre elles étaient insouciantes, et cinq étaient prévoyantes : les insouciantes avaient pris leur lampe sans emporter d’huile, tandis que les prévoyantes avaient pris, avec leurs lampes, des flacons d’huile.

Comme l’époux tardait, elles s’assoupirent toutes et s’endormirent. Au milieu de la nuit, il y eut un cri : ‘Voici l’époux ! Sortez à sa rencontre.’ Alors toutes ces jeunes filles se réveillèrent et se mirent à préparer leur lampe. Les insouciantes demandèrent aux prévoyantes : ‘Donnez-nous de votre huile, car nos lampes s’éteignent.’ Les prévoyantes leur répondirent : ‘Jamais cela ne suffira pour nous et pour vous, allez plutôt chez les marchands vous en acheter.’

Pendant qu’elles allaient en acheter, l’époux arriva. Celles qui étaient prêtes entrèrent avec lui dans la salle des noces, et la porte fut fermée. Plus tard, les autres jeunes filles arrivèrent à leur tour et dirent : ‘Seigneur, Seigneur, ouvre-nous !’ Il leur répondit : ‘Amen, je vous le dis : je ne vous connais pas.’ Veillez donc, car vous ne savez ni le jour ni l’heure.» (Mt 25, 1-13)

Il faut !

Dans l’encyclique Populorum progressio il est expliqué que toute vie est une vocation parce qu’elle est un appel à la sainteté, un appel à vivre de la vie même de Dieu en étant totalement transfiguré par son amour.

En tant qu’appel, la vocation invite à une réponse. Celle que le Seigneur attend de nous est une réponse de foi. Pierre, lui aussi, fut appelé par le Seigneur et sa réponse s’exprima dans cette profession de foi admirable : «Tu es le Messie, le Fils du Dieu vivant.» (Mt 16, 16)

Mais Pierre ne perçut sans doute pas la portée de ses paroles. La page d’évangile de ce dimanche nous le montre : en ce moment où il vient d’obtenir de ses disciples et de Pierre en particulier la première profession de foi, Jésus fait la première annonce de sa Passion : «À partir de ce jour, Jésus commença de montrer à ses disciples qu’il lui fallait s’en aller à Jérusalem, y souffrir beaucoup de la part des anciens, des grands prêtres et des scribes, être tué et ressusciter le troisième jour»(Mt 16, 21)

Dans notre vie, certains évènements marquent une rupture qui est un appel à autre chose. Jésus, lui-même a connu de telles situations : Jésus commença à monter à ses disciples qu’il lui fallait partir pour Jérusalem. Cette décision, Jésus a dû la mûrir : il faut !

Cette expression, au sens biblique, signifie toujours une référence à la volonté du Père. En disant il faut , à notre tour, nous adhérons, dans la foi, à la volonté du Père. Jésus avait à peine trente ans, la fleur de l’âge et son ministère allait se terminer brutalement.

Du point de vue humain, c’était l’échec. La haine des autorités religieuses et civiles et l’abandon des foules : anciens, chefs des prêtres, scribes, tous les notables et les dirigeants de Jérusalem étaient contre lui !

À partir de ce moment là (Mt 16, 21a), Jésus annonça par trois fois sa Passion (Mt 16, 21 ; Mt 17, 22-23 et Mt 20, 18-19). Le prenant à part, Pierre se mit à lui faire de vifs reproches : « Dieu t’en garde seigneur ! Cela ne t’arrivera pas.» (Mt 16, 22 )

Pierre refusa de voir en Jésus le serviteur souffrant. Il faut une foi solide pour accepter le mystère de Jésus, sauveur du monde par la croix. C’est à ce moment que Jésus adresse son appel à tous et à toutes : «Si quelqu’un veut marcher à ma suite, il faut qu’il renonce à lui-même, qu’il prenne sa croix et qu’il me suive.» (Mt 16, 24)

 Suivre le Christ c’est aussi purifier notre prière. Trop souvent, nous nous tournons vers lui quand tout va mal. Et nous voulons qu’il fasse quelque chose pour que tout aille mieux.

Nous n’avons pas à dicter à Dieu ce qu’il doit faire. Dieu n’est pas attaché à notre service. Il n’est pas notre boy. Certains ne prient plus ou ne vont plus à la messe parce que, disent-ils, cela ne sert à rien.

Et c’est là qu’on se trompe. On ne prie pas, on ne va pas à la messe pour soi mais pour Dieu. Quand on aime, on ne pense pas d’abord à soi mais à l’autre. Celui qui aime vraiment est prêt à se sacrifier pour l’autre.

L’évangile de ce jour nous adresse un commandement très fort : «Passe derrière moi !» C’est un appel à changer notre regard sur Dieu et sur le sens que nous donnons à notre vie.

Le plus important ce n’est pas la réussite matérielle, la promotion, la mise en valeur du moi. Jésus voudrait nous orienter vers une autre logique, celle de l’amour vrai, du don de soi, de la gratuité. C’est sur ce chemin que nous sommes appelés à le suivre. En choisissant le Christ, nous choisissons la Vie.

Dieu est amour, et son amour est le secret de notre bonheur. Pour entrer dans ce mystère d’amour, il n’y a pas d’autre chemin que celui de se perdre, de se donner, il faut renoncer à soi-même, il n’y a pas d’amour vrai sans ce renoncement.

Aimer vraiment, coûte cher, très cher parfois : pardonner à un quelqu’un, avoir le courage de s’afficher croyant dans un milieu hostile, aimer fidèlement son conjoint, continuer à s’occuper d’enfants qui semblent se moquer de vous, garder le sens du partage, rester honnête dans les affaires.

Pour aimer en vérité, il faut y mettre le prix ! Selon Jésus, il faut perdre pour gagner :  «Celui qui veut sauver sa vie, la perdra, mais qui perds sa vie à cause de moi, la gardera. » (Mt 16, 25)

En résumé : Jésus nous suggère d’aimer jusqu’au bout, de vivre pleinement et de gagner l’essentiel.

Diacre Michel Houyoux

Sites intéressantz à voir sur Internet

Père Gilbert Adam : cliquez ici pour lire l’article → Trente-deuxième dimanche du temps ordinaire, année A

Abbaye de Wavremont (Belgique) : cliquez ici pour lire l’article → Trente-deuxième dimanche du temps ordinaire A

Vidéo Arnauld Dumouch : cliquez ici pour voir la vidéo → https://youtu.be/f1K_1qA7TRk?t=3

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Lundi de la trente et unième semaine du Temps ordinaire- Année A

Posté par diaconos le 5 novembre 2023

Méditation du jour : mardi 3 novembre - Diocèse de Metz

# Le Grand souper est une parabole de l’Évangile selon Luc. Jésus veut à travers ses propos inciter à croire et à se réjouir de l’existence de Dieu. Cette parabole est proche dans la forme et le fond de celle des Noces.

Le souverain pontife Grégoire le Grand nomma son homélie 36 : « les invités qui se dérobent ». Ce fut ce passage renommé de l’Évangile selon Luc qui fut commenté. Le Pape expliqua que ce repas sera celui de la fin des temps.

Peu y viendront car malheureusement ils préfèrent les nourritures terrestres aux célestes. Saint-Grégoire exhorta à ne pas dédaigner les appels de Dieu, et à mettre au premier plan les volontés divines plutôt que les désirs matériels. Il faut croire en Dieu et ne pas refuser ses préceptes.

 

De l’Évangile de Jésus Christ selon Luc

En ce temps-là, Jésus disait au chef des pharisiens qui l’avait invité : «Quand tu donnes un déjeuner ou un dîner, n’invite pas tes amis, ni tes frères, ni tes parents, ni de riches voisins ; sinon, eux aussi te rendraient l’invitation et ce serait pour toi un don en retour.

Au contraire, quand tu donnes une réception, invite des pauvres, des estropiés, des boiteux, des aveugles ;heureux seras-tu, parce qu’ils n’ont rien à te donner en retour : cela te sera rendu à la résurrection des justes.» (Lc 14, 15-24)

L’invitation à un grand souper

La résurrection des justes, dont Jésus parla, éveilla chez l’un des convives l’espérance du bonheur céleste, de ce banquet dans le royaume de Dieu qui en fut le symbole : «Il en viendra de l’orient et de l’occident, du nord et du midi ; et ils se mettront à table pour le grand dîner?»

Jésus répondit à cette exclamation, inspirée par une assurance présomptueuse, en donnant à ses auditeurs un sérieux avertissement. La parabole qu’il prononça leur explqua comment plusieurs des invités au banquet céleste n’y eurent aucune part, et cela par leur faute.

Jésus décrivit plus d’une fois l’ingratitude et la révolte de son peuple par cette similitude, en en modifiant certains détails. L’homme qui fit un grand souper, c’est Dieu, dont la miséricorde infinie offre à chaque personne perdue dans sa misère, le privilège de rentrer en communion avec lui, et de trouver auprès de lui tous les biens qui peuvent rassasier sa faim et remplir son cœur de la joie d’un banquet céleste.

L’invitation à ce grand souper retentit fréquemment et longtemps en Israël par le ministère des prophètes. Son serviteur, c’est Jésus lui-même, envoyé dans l’accomplissement des temps pour réitérer d’une manière plus pressante et plus solennelle l’invitation.

Seul il put dire : «C’est déjà prêté», car lui-même avait tout préparé, tout accompli pour le salut de l’humanité perdue. Les termes dont il se servit expriment la parfaite gratuité de ce salut.

Mais ils se mirent tous unanimement à s’excuser. Le premier lui dit : «J’ai acheté un champ, et il me faut nécessairement sortir pour le voir ; je te prie, tiens-moi pour excusé.»

Ces termes firent ressortir ce qu’il y eut dans une telle conduite de surprenant, d’ingrat, d’injurieux pour celui qui invita. Ce fut inimitiédu cœur de l’homme contre Dieu prise sur le fait.

Les excuses différèrent, mais l’esprit fut le même. Il y eut une gradation : le premier se crut sous la nécessité de refuser ; le second eut dit qu’il partit pour éprouver ses bœufs ; le troisième ne chercha aucune excuse, il se sentit dispensé par l’importance de ce que son mariage le retint, et il se contenta de répondre : «Je ne puis.»

Tous les motifs allégués furent honnêtes, légitimes, plausibles pour ces gens : ce furent les possessions, les affaires, les affections de famille. Mais comme il n’y eut aucune incompatibilité entre ces choses-là et la communion avec Dieu, elles ne furent que de vains prétextes. Le vrai obstacle fut dans le cœur de l’homme.

Le serviteur, de retour de sa mission, rendit compte au maître des refus qu’il essuya. La colère du maître de la maison ne fut que trop justifiée par la secrète inimitié des gens qui méprisèrent son invitation.

Plus l’amour de Dieu est grand, plus sa colère sera terrible. La seconde invitation s’adressa à tous les malheureux ici désignés, qui n’eurent d’autre retraite que les places et les rues de la ville.

Le serviteur, ayant reçu l’ordre de son maître, repartit pour faire la seconde invitation, et que ce fut après son retour qu’il prononça ces paroles. Mais de quel droit suppose-t-on ce fait non exprimé dans un récit aussi circonstancié ?

«Non, le serviteur, repoussé par les premiers invités, a fait de lui-même ce que le maître lui commande ici, en sorte qu’il peut répondre aussitôt : c’est fait, ce que tu as ordonné. Ce sens s’applique admirablement à Jésus ; il a pleinement accompli ce conseil de Dieu qui lui était connu, d’annoncer l’Évangile aux pauvres» (Meyer)

Mais quelle révélation de la miséricorde infinie de Dieu, dans ces dernières paroles ajoutées par le serviteur : et il y eut encore de la place ! S’il en fut un plus pauvre, plus misérable encore que ces derniers invités, il put reprendre courage et se dire : «Il y a aussi de la place pour moi»

«Dieu ne force personne, mais il fait qu’on veut» Gaussen) Qui aurait pu croire que jamais on chercherait dans ces paroles une légitimation de l’horrible contrainte par le fer et le feu ! ,

Ces dernières paroles, conclusion de la parabole, font encore partie de celle-ci, et dites par le maître de la maison ; elles ne sont pas une déclaration de Jésus aux convives, comme on le prétendit, puisque lui-même apparaît dans cette histoire comme serviteur.

Elles expriment toute la sévérité de Dieu, à la fin de cette parabole destinée à révéler tout son amour. «Car je vous dis qu’aucun de ces hommes qui ont été invités ne goûtera de mon souper.»

Diacre Michel Houyoux

Liens avec d’autres sites chrétiens sur Internet

Jardinier de Dieu : cliquez ici pour lire l’article → Va sur les routes et dans les sentiers, et et fais entrer les gens de force, afin que ma maison soit remplie

Regnum Christi : cliquez ici pour lire l’article → Fais entrer les gens de force, afin que ma maison soit remplie

Vidéo Frère Sébastien Marie https://youtu.be/2lyg9ltd7RU

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Saint Charles Borromée

Posté par diaconos le 4 novembre 2023

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Carlo Borromeo, naquit à Arona le 2 octobre 1538 dans une famille de la haute aristocratie lombarde. Sa mère est la sœur de Giovanni Angelo de Médicis, qui fut pape sous le nom de Pie IV de 1559 à 1565. Charles Borromée est son neveu.

À l’âge de douze ans, il reçut la tonsure et le bénéfice de l’abbaye bénédictine d’Arona, laissée vacante par son oncle. Il fit ses études à Milan puis à Pavie..

Quand son père mourut en l’an 1558, il prit en main les affaires de sa famille. L’année suivante, son oncle maternel fut élu pape à la mort de Paul IV. En l’an 1561, ce même oncle intervint pour que Charles fut promu cardinal secrétaire d’État, au titre de Santi Vito Modesto e Crescenzia, puis légat apostolique a Bologne, en Romagnes et dans les Marches.

En l’an 1561, Borromeo fonda et dota un collège à Pavie, aujourd’hui connu sous le nom d’Almo Collegio Borromeo, qu’il dédia à Justine de Padoue. Il participa activement au concile de Trente, s’attachant à réformer les abus qui s’étaient introduits dans lÉglise, et fit rédiger le célèbre catéchisme connu sous le nom de catéchisme du Concile de Trente en l’an 1566.

Avec le cardinal Vitellozo Vitelli, Il réforma et révisa les statuts de la Chapelle pontificale et prescrit l’intelligibilité des paroles et une musique en rapport avec le texte.

À cette époque, le maître au Vatican est le compositeur Giovanni Piereluigi da Palestrina et la polyphonie chorale s’en trouva transformée dans tous les pays sous l’influence vaticane.

Charles Borromée intervint pour convaincre les récalcitrants, notamment Contanzo Porta, à Milan. La correspondance de ce dernier avec Charles Borromée, cardinal archevêque de Milan, le montra ardent défenseur de la pratique instrumentale à l’église et de la pompe sonore, cependant que le cardinal disputa chaque argument avec une acuité qui prouva sa grande connaissance de la science musicale.

Il prit une part active et prépondérante à l’élaboration de la discipline ecclésiastique et hospitalière au Concile de Trente. Rentré dans son diocèse de Milan, il visita ses paroisses, tint des synodes, réunit des conciles provinciaux : ce qui est indiqué à grands traits dans les décrets de Trente se trouva fixé dans le plus petit détail dans les ordonnances de Borromée et avec une perspicacité de ce qui était nécessaire et réalisable qui souleva l’admiration générale.

Les prescriptions générales formulées par le Concile de Trente en matière hospitalière sont traduites en de minutieuses applications pratiques dans les conciles de Milan qu’il préside en 1565 et en 1576.

Un peu partout en Europe, l’exemple donné par saint Charles Borroirmée devait être suivi fidèlement par les autorités religieuses locales, d’autant plus fidèlement que les gouvernements n’entendent pas promulguer les décisions du concile de Trente qui, sur ce plan là, étaient manifestement contraires à leurs propres ordonnances.

Dans le royaume de France, le pape Pie V et le cardinal Borromée s’efforcèrent d’obtenir d’une part de l’autorité souveraine la promulgation officielle des décisions tridentines, d’autre part, des évêques l’insertion des prescriptions conciliaires dans la discipline locale par le truchement de diverses assemblées ecclésiastiques.

Cette pensée ressortit nettement des lettres du cardinal Borromée, qui donna au nonce deux missions : amener la régente Catherine de Médicis à la promulgation, et faire parvenir les décrets à la connaissance du clergé.

L‘un des motifs de l’hostilité rencontrée par les décisions conciliaires consistait justement dans le conflit de compétences qu’aurait provoqué l’application des règles hospitalières tridentines.

L’antinomie entre les canons du concile de Trente et les ordonnances des Rois de France précédemment promulguées était en effet absolue. Le Roi de France avait publié un édit sous l’autorité du Comte Mauve, légiste en son état, en l’an 1543 attribuant aux baillis, sénéchaux et autres juges la surveillance de l’administration des hôpitaux, par de multiples édits affirmé la nécessité d’enfermer les indigents valides et leur interdire la mendicité, prescrivit que les recteurs des hôpitaux devaient rendre compte aux magistrats locaux.

Ainsi, les prescriptions tridentines furent plus ou moins formellement reprises par les canons conciliaires français, presque partout furent signalés deux impératifs : d’une part, les évêques devaient visiter les établissements charitables, d’autre part, ils devaient assister ou se faire représenter à la reddition des comptes.

Mais l’essentiel des pouvoirs resta aux laïcs. Charles Borromée ne parvint pas à rétablir la prééminence ecclésiastique dans la conduite et la gestion des hôpitaux face au gallicanisme de la politique royale.

Nommé archevêque de Milan en lan 1564 il se démit de toutes ses autres charges à Rome pour pouvoir résider en permanence dans son diocèse. Son intégrité personnelle, son intelligence des situations et sa vertu rayonnante facilitèrent le rétablissement de la discipline ecclésiastique.

Il s’employa à y appliquer les mesures prises au concile. Tout d’abord, il prit sa résidence à Milan et ouvrit un séminaire pour améliorer la formation du clergé. Il restaura l’observance de la règle dans les couvents et fit fixer des grilles aux parloirs. Bientôt, il étendit son action à toute l’Italie, puis à la Suisse.

Un des ordres qu’il voulait réformer, l’Ordre des Humiliés, tenta de le faire assassiner, mais il échappa aux coups de l’assassin. Lors de la peste qui désola Milan en l’an 1876, il porta partout secours et des consolations, ignorant les dangers de la contagion.

Il fonda en l’an 1581 une congrégation d’oblats, prêtres séculiers Oblats de saint Charles. Il mourut en l’an 1587 à 46 ans, épuisé par les fatigues et les austérités.

Son tombeau fut un endroit de guérisons considérées comme miraculeuses, ce qui permit la mise en route de son procès en béatification, qui aboutit en l’an 1609 devant le pape Paul V.

Il fut canonisé dès le premier novembre 1610 par le pape Paul V. C’est l’un des très rares saints dont le procès de canonisation a abouti un an seulement après sa béatification. Il est fêté le quatre novembre. Une statue colossale lui a été érigée à Arona.

Diacre Michel Houyoux

Vidéo Cliquez ici https://youtu.be/EX37Sfp0HBA?t=17

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